Dipendenze Affettive (estratto da uno scritto di Piero Priorini)
Lungo, ma vale la pena...

[...] Alcune domande fondamentali che ho imparato a rivolgere a coloro che si rivolgono a me per curare una supposta ferita d’amore, sono quelle relative alla descrizione del proprio compagno e delle esperienze vissute insieme. Quasi sempre c’è incompatibilità d’anima, mancanza di rispetto, progettualità diverse se non addirittura opposte, bisogni e desideri che non possono essere condivisi. E scarsi, se non assenti, sono stati i momenti di comunione profonda e di soddisfazione reciproca.

Perché allora continuare?

Perché tormentarsi nella speranza che le cose possano cambiare quando il supposto cambiamento è stato solo desiderato, sognato, immaginato ma mai sperimentato come possibile?

Perché non poter chiudere e allontanarsi, magari tra mille turbamenti, ma con la consapevolezza di una fine che era inevitabile per il rispetto di entrambi?

Perché restare sul posto, immobili… spesso indifferenti agli insulti e agli oltraggi… amplificando il proprio dolore a dismisura in una sorta di delirio sacrificale il cui orrore è pari solo alla sua inutilità?

E – soprattutto – perché questo stato di cose sembra non avere mai fine? Non essere limitato entro un ragionevole lasso di tempo entro il quale valutare le effettive opportunità di cambiamento…

Una osservazione superficiale potrebbe far ritenere il fenomeno dovuto alla minore capacità degli uomini e delle donne moderni di sopportare qualunque tipo di frustrazione, e di stabilire perciò dei legami di dipendenza non essendo semplicemente in grado di accettare il rifiuto di sé.

Ma non è così. Anzi… si potrebbe affermare addirittura il contrario: e cioè che la dipendenza si stabilisce appunto perché c’è il rifiuto. Se non ci fosse, quasi sempre il supposto amore finirebbe in un lasso di tempo incredibilmente breve.

Per quanto paradossale possa sembrare, la dipendenza si alimenta del rifiuto, della negazione di sé, del dolore implicito nelle difficoltà e cresce in proporzione inversa alla loro irrisolvibilità.

Quello che seduce è la lotta.

Quello che incatena – per usare le parole della psichiatra milanese Marta Selvini Palazzoli - è l’Ibris, cioè a dire la ingiustificata, assurda, sconsiderata presunzione di farcela. La presunzione di riuscire prima o poi nella vita a farsi amare da chi proprio non vuole saperne. O, secondo una serie di specifiche variabili, di riuscire a curare chi non può o non vuole essere curato, di salvare chi non può o non vuole essere salvato.

Ma ancora una volta, contrariamente a quello che può ritenere il buon senso comune, questa compulsione ad oltranza che spinge gli affettivo-dipendenti a permanere nella proprie inutili battaglie, non è determinata da una sorta di masochismo psichico. Non è il piacere per le proprie sofferenze che motiva tutte queste persone, bensì proprio l’opposto: la speranza inconsapevole di saturare una vecchia ferita. Di guarire da un male antico.

Perché il rifiuto, l’abbandono, la svalutazione di sé, l’umiliazione, hanno già fatto parte della loro vita emotiva; in un modo o nell’altro sono state queste le esperienze cruciali che hanno caratterizzato il delicato periodo formativo della loro personalità. Che ne è stata segnata!

In un’epoca in cui l’autonomia emotiva e la piena coscienza non potevano ancora essersi formate ci sono state laceranti esperienze di rifiuto e di abbandono da parte di uno o di entrambi i genitori, come conseguenza delle quali i bambini sono cresciuti in una sorta di anestesia che nasconde però sia l’ambivalenza dolore-rabbia per il mancato riconoscimento d’amore, sia l’atroce dubbio di non valere poi tanto e di dover fare di tutto per essere migliori.

La crescita copre la ferita… ma la lascia insanata.

Quando poi, nella vita adulta, si presenta una situazione simbolicamente simile a quella precedentemente vissuta è come se fosse colta al volo l’occasione di ritualizzarla per tentare di sanare il passato attraverso il presente. L’intento dell’inconscio non è sciocco né tanto meno auto-distruttivo. Piuttosto è ingenuo nel suo presumere di poter dimostrare una volta per tutte la propria disponibilità affettiva e il proprio valore, di conquistare (curare o sanare) l’essere tanto amato ma mai conquistato, e di venir così risarcito di tutto l’amore mancato.

Quasi mai l’Altro è visto per quello che è (spesso un egoista chiuso su se stesso, o un nevrotico senza speranza o un approfittatore senza scrupoli); piuttosto è immaginato come sarebbe qualora si lasciasse finalmente amare e con amore ricambiasse tanta dedizione. È di questa immagine, evocata come per incantamento nello specchio magico dell’inconscio, che il dipendente si innamora; senza accorgersi minimamente che dietro tale mascheramento occhieggia il volto del genitore che l’ha tradito.

L’ulteriore e ultimo paradosso consiste nel fatto che il rituale simbolico è percepito tanto più significativo – e dunque tanto più coercitivo - quanto più l’Altro si presenta affettivamente poco disponibile e non del tutto conquistabile, così come mai raggiunto e mai conquistato è stato l’adulto abbandonico. Non a caso la maggioranza degli affettivo-dipendenti confessa spontaneamente di non aver provato quasi mai attrazione verso Altri che, pur avendo tutti i requisiti per essere desiderabili, hanno commesso l’errore di testimoniare un gratuito affetto nei loro confronti. Come se la gratuità, appunto, avesse il potere di soffocare il loro desiderio, che solo nella morbosità della difficoltà e del rifiuto viene invece percepito e riconosciuto. In sostanza, più che di una immaturità cognitiva ed emozionale del dipendente, si tratta di una distorsione patologica della sua vita affettiva, ricalcata sull’impronta distorta impressa dal modello di relazionale primario.


Fermo restando che in qualunque relazione possono esserci brevi dolorosi momenti di mancata comprensione e incompatibilità, l’essenza dell’amore dovrebbe consistere nel piacere e nella gioia di condividere con un altro essere umano il mistero della propria vita. La dipendenza affettiva, al contrario, è caratterizzata da una tensione di incomprensioni e di ostilità, magari inconsce ma costanti, e dal ristagno dell’anima in condizioni quanto più dolorose e difficoltose… pena la fine dell’incantamento e la ricerca di una nuova relazione ancora più penosa e priva di speranza, in una coazione a ripetere pressoché infinita
PRELUDIO N.15 "LA GOCCIA" DI CHOPIN
Pag.299 del libro "L'autocoscienza del cosmo" BUR di Luigi Giussani

Siccome al mio papà piaceva Chopin più di tutti gli altri, avevo sentito almeno un centinaio di volte il quindicesimo preludio di Chopin (che si chiama appunto il "preludio della goccia"). Finché una volta, improvvisamente - ero in ginnasio o in liceo, non ricordo più (no, è stato in liceo, perché era connesso con il problema dell'esistenza di Dio) -, mi sono improvvisamente accorto che la bellezza del preludio di Chopin era apparentemente determinata, dettata dalla melodia di primo piano - che è bellissima, ha delle variazioni bellissime -, ma l'attrattiva del pezzo, la profondità del pezzo, la verità del pezzo non era nella melodia di primo piano: era in una nota che incominciava a farsi sentire leggerissima e poi cresceva, cresceva, cresceva, così che la melodia passava in seconda linea e invece ingrossava questa nota, sempre quella, sempre quella - proprio "mono-tono" -, sempre quella; e poi passava in secondo piano e poi ripassava in primo piano.
E quando uno incomincia ad accorgersi di quella nota, capisce che il tema del pezzo è quella nota e non la melodia, e quella nota diventa come una fissazione. Tant'è vero che alla terzultima o penultima battuta finalmente sembra che questa nota sia stata vinta: la melodia prende il sopravvento e detta le sue note lentamente, quasi dominando il campo. Ma dopo quattro o cinque di queste note che dominano il campo, tac tac tac: la goccia ritorna. E io ho capito improvvisamente, sentendo questo preludio di Chopin - dopo averlo sentito cento volte -, che questo è il senso della vita: il senso della vita è come quella nota, sempre quello, uniforme. Tutto il colore, tutta la varietà della vita è nell'apparenza; ma, pur essendo la varietà della vita, il colorito della vita, tutto nell'apparenza, non è quello il tema della vita. Quello che l'uomo vuole non è quello, quello che l'uomo aspetta non è quello: è piuttosto quella fissazione lì, che è il desiderio di felicità, il desiderio della felicità.
Quella nota li è nella melodia ciò che nell'uomo è il desiderio della felicità, l'esigenza del cuore, vale a dire il punto di fuga.
Sentitelo questo preludio di Chopin e poi vedrete. Dopo che ho capito questo, in tutti i pezzi di musica mi risulta la stessa cosa! Per esempio, il secondo movimento della Settima sinfonia di Beethoven, oppure il Concerto per violino e orchestra di Beethoven, oppure il Trio op.100 di Schubert... sono tutte cose che potreste sentire.
la rosa di Paracelso

....."I miei detrattori, che non sono meno numerosi che stupidi, sostengono il contra­rio e mi accusano di essere un impostore. Non do loro ragione- ma non è impossibile che io sia un illuso. So che esiste una via.”Vi fu una pausa e l'altro disse:“Sono pronto a percorrerla con te. anche se dovessimo viaggiare per molti anni. La­sciami attraversare Il deserto. Lasciami intravedere almeno da lontano la terra promessa, anche se gli astri me ne vieteranno l'accesso. Ma prima di intraprende il viaggio, io voglio una prova.”“Quando?" disse Paracelso, con inquietudine.“Subito”, rispose il discepolo con brusca determinazione.Avevano iniziato la conversazione in latino ora parlavano in tedesco.Il giovane levò in alto la rosa."Affermano", disse, "che tu puoi bruciar una rosa e farla rinascere dalle ceneri per opera della tua arte. Lascia che io sia testimone di questo prodigio. Ecco ciò che chiedo, poi la mia vita sarà tua.”"Sei molto credulo", disse il maestro."Non so che farmene della credulità; esigo la fede."L'altro insistette."E’ proprio perché non sono credulo che voglio vedere coi miei occhi l'annienta­mento e la resurrezione della rosa."Paracelso l'aveva presa in mano, e parlan­do giocherellava con essa.“Sei credulo” disse “Tu dici che io sono capace di distruggerla?""Nessuno è incapace di distruggerla ", rispose il discepolo.“Ti sbagli. Credi forse che qualcosa possa esser reso al nulla? Credi che il Primo Adamo nel Paradiso abbia potuto distrug­gere un solo fiore, un solo filo d'erba?"“Non siamo nel Paradiso”, disse ostinato il giovane; “qui, sotto la luna, tutto è morta­le.” Paracelso si era alzato in piedi."E in quale altro luogo siamo? Credi che la divinità possa creare un luogo che non sia il Paradiso? Credi che la caduta sia altro dall'ignorare che siamo nel Paradiso?""Una rosa può bruciare", disse il discepolo in tono di sfida.“V'è ancora del fuoco nel camino", rispose Paracelso. "Se tu gettassi questa rosa fra le braci, crederesti che le fiamme l'abbiano consumata e che sia la cenere a essere reale. lo ti dico che la rosa è eterna e che solo la sua apparenza può cambiare. Mi basterebbe una parola perché tu la potessi vedere di nuovo.""Una parola?" disse stupefatto il discepo­lo. "L'athanor è spento, gli alambicchi sono coperti di polvere. Che, farai per farla rinascere?"Paracelso lo guardò con tristezza.“L'athanor è spento", ripeté, "e gli alam­bicchi sono coperti di polvere. In questo tratto della mia lunga giornata uso altri strumenti.”"Non oso domandare quali", disse l'altro con malizia o con umiltà."Parlo di quello che usò la divinità per creare il cielo e la terra e l'invisibile Paradi­so in cui ci troviamo e che ci è nascosto dal peccato originale. Parlo della Parola che ci insegna la scienza della Cabala." Il discepolo disse freddamente:"Ti chiedo la grazia di mostrarmi la scom­parsa e la ricomparsa della rosa. Poco m’importa che tu operi per mezzo del Ver­bo o degli alambicchi."Paracelso rifletté. Infine disse:"Se lo facessi, tu diresti che si tratta di un'apparenza imposta ai tuoi occhi dalla magia. Il prodigio non ti donerà la fede che cerchi. Dunque lascia stare la rosa."Sempre diffidente, il giovane lo guardò. Il maestro alzò la voce e gli disse:“E inoltre, chi sei tu per introdurti nella dimora di un maestro ed esigere da lui un prodigio? Che hai fatto per meritare simile dono?"L’altro replicò, tremando:"So bene che non ho fatto nulla. Ti chiedo ­in nome del molti anni in cui studierò alla tua ombra, di lasciarmi vedere la cenere e poi la rosa. Non ti chiederò altro. Crederò alla testimonianza dei miei occhi.”Bruscamente, afferrò la rosa rossa che Paracelso aveva lasciato sul leggìo e la get­tò tra le fiamme. Il colore si perse e rimase solo un po' di cenere. Per un istante infinito egli attese le parole e il miracolo. Paracelso era rimasto impassibile. Disse con strana semplicità:"Tutti i medici e tutti gli speziali di Basilea affermano che io sono un mistificatore. Forse essi sono nel vero. Qui riposa la cene­re che fu rosa e che non lo sarà” il giovane si sentí pieno di vergogna. Para­celso era un ciarlatano o un semplice visio­nario, e lui, un intruso, aveva varcato la sua porta e ora lo costringeva a confessare che le sue famose arti magiche erano vane.Si inginocchiò, e disse:"Ho agito imperdonabilmente. Mi è man­cata la fede che il Signore esigeva dai cre­denti. Lasciami ancora guardare la cenere. Tornerò quando sarò piú forte e sarò tuo discepolo e in fondo al cammino vedrò la rosa."Parlava con passione autentica, ma quella passione era la pietà che gli ispirava il vec­chio maestro, tanto venerato, tanto attac­cato, tanto insigne e perciò tanto vuoto. Chi era lui, Johannes Grisebach, per sco­prire con mano sacrilega che dietro la maschera non c'era nessuno?Lasciare le monete d'oro sarebbe stata un elemosina. Le riprese uscendo.Paracelso l'accompagnò al piedi della scala e gli disse che sarebbe sempre stato il benvenuto.Entrambi sapevano che non si sarebbero visti mai piú.Paracelso rimase solo. Prima di spegnere la lanterna e di sedersi nella poltrona consunta, raccolse nell'incavo della mano il picco­lo pugno di cenere e disse una parola a bassa voce.
La rosa risorse.
la metafora della luce

Le origini del nostro presente sono in quel tempo che è connesso alla parola della luce: l'Illuminismo. È la luce della ragione che illumina tutte le cose e che si vuole imporre alla realtà.
Fuor di metafora la parola luce vuol dire emancipazione :«l'emancipazione è ricondurre il mondo e tutti i rapporti all'uomo e fare dell'uomo non più l'oggetto, ma il soggetto della propria storia, del proprio destino»....come dice Carlo Marx. In altre parole tu sei emancipato non quando qualcuno gestisce per te la tua vita, ma quando prendi il tuo destino nelle tue mani, quando ti fai signore e protagonista del tuo domani, quando rischi in prima persona l'avventura di vivere e morire.
Ma la metafora della luce è inevitabilmente una metafora tragica: perché quando si pretende, come pretese la modernità, di illuminare tutto e comprendere tutto, allora inesorabilmente la "luce" diviene sorgente di violenza,perché è il tempo del soggetto che vuol fare da solo.
L'uomo ,solo davanti alla vita ,si comporta come l'uomo folle di Nietzsche : si sveglia al mattino, quando ancora non è sorto il sole, e accende una lanterna e, mentre il sole comincia a illuminare tutte le cose, va con la lanterna sulla piazza del mercato e comincia a gridare: «Dio è morto e noi l'abbiamo ucciso».
Nietzsche non ha denunciato la morte di Dio ma l'infinita solitudine che segue alla morte di Dio. Con questa metafora della lanterna dell'uomo folle, in realtà Nietzsche fa l'ironia del tempo della modernità. La lanterna che nella luce chiara del giorno vorrebbe illuminare il mondo, è la ragione, questa piccola nostra ragione che avrebbe voluto spiegare tutto da sola facendo a meno di Dio.


bruno forte